Recensione di Nino Mustari - Presentazione de Il viale degli angeli a Taverna (CZ) del 12.10.12

19.10.2012 16:45

Presentazione de “Il Viale degli Angeli- Boulevard Sérurier-“

di Leonardo Mastia, Guida Editore, (2011), Taverna, 12.10.2012

 

  • Vi racconto innanzi tutto come si può incastrare un amico: il 14 agosto scorso, vigilia di Ferragosto dell’ultima rovente estate, incontro a Villaggio Mancuso l’amico Carmelo Sanzi, il quale chiede la mia disponibilità a presentare un libro, del quale, molto succintamente, mi riassume il contenuto.

Cerco di declinare il cortese invito, accampando impegni notevoli, importanti, improcrastinabili per i mesi di settembre e di ottobre. “Non c’è problema - insiste Carmelo- possiamo presentarlo entro la fine di questo mese di agosto”. È chiaro, a quel punto, che non posso esimermi e gli chiedo di avere solo la possibilità di leggere anticipatamente il libro. Sono poi state fissate diverse date fino ad arrivare a quella di oggi. E vi dico subito che oggi sono lieto di essere stato incastrato e ringrazio pubblicamente Carmelo per averlo fatto: se non fosse stato per la sua garbata insistenza, e soprattutto per la stima che egli nutre nei miei confronti, forse non avrei mai saputo nulla della pubblicazione di questo bellissimo libro del quale stiamo per parlare: certamente non lo avrei neppure letto e di conseguenza avrei ignorato l’umanissima vicenda che in esso è narrata e che, vi assicuro, pur essendo rimasto alla fine con l’amaro in bocca, mi ha umanamente arricchito. Se Carmelo non mi avesse “incastrato”, non avrei, tra l’altro, mai conosciuto la splendida persona di chi questa vicenda ha narrato e  non sarei stato neppure utile, come spero di essere, all’ACMO “Ida Ponessa” ed alla causa che porta avanti da quando si è costituita.

 

  • La splendida persona che ha narrato la vicenda, cioè l’autore del libro, non è uno scrittore di professione, ma è l’avvocato Leonardo Mastia (nelle cui vene scorre anche sangue tavernese), penalista di valore iscritto nel foro di Salerno, città nella quale risiede;  un uomo al quale è toccato vivere il dolore più grande e innaturale che un essere umano possa sopportare: la morte di un figlio, nello specifico del figlio Antonio.

Sono certo che l’avv. Leonardo Mastia, durante i quattro anni nei quali si svolge tutta la vicenda, non avrà mai pensato di scrivere questo libro, poiché egli voleva soltanto la guarigione del figlio, suo bene più prezioso, come lo definisce più volte, e sono certo che non avrà preso appunti sullo sviluppo della  malattia di Antonio. La vicenda, tuttavia, gli è rimasta fissa nella mente, attaccata con il collante della sofferenza. Nel libro egli la rivive per intero come se fosse un film nel quale i fotogrammi seguono l’uno all’altro, senza interruzione, con un filo logico e consequenziale e la narra con un linguaggio semplice, accessibile, di facile lettura e di facile comprensione, senza ricorrere, come potrebbe per via della professione che esercita, ad artifizi linguistici.

Di questo libro, la cui presentazione si inserisce nell’ambito delle attività che promuove l’ACMO “Ida Ponessa” parleremo succintamente io e gli amici che siedono con me attorno a questo tavolo e che voi conoscete meglio di me, così come delle attività e delle finalità dell’ACMO parlerà il presidente Aldo Riccelli.

Il tutto, comunque, dopo aver ascoltato il saluto del Sindaco di Taverna; un saluto che, ne sono certo, come al solito non sarà un saluto formale

 

Ringraziamo il Sindaco e veniamo dunque al libro, partendo dalla struttura, prima di accennare ai contenuti.

 

  • Titolo: Il viale degli angeli. È questa la nuova, personale denominazione che l’autore dà al Boulevard Sérurier; un viale di Parigi, lungo il quale, uno ad uno, uno dopo l’altro  gli angeli si fermano, impossibilitati ad andare oltre perché stroncati da male incurabile. Sul viale sorge l’ospedale di oncologia pediatrica “Debrè” di Parigi, dove si sperimentano nuove terapie per sconfiggere il cancro; gli angeli sono i tanti bambini e ragazzi che in quell’ospedale concludono la loro breve esistenza dopo sofferenze atroci, sopportate, in tutti i casi, con una forza d’animo straordinaria. Di alcuni di tali bambini conosciamo il nome nel corso della lettura del libro e ad essi ci affezioniamo come ci si è affezionato l’autore: sono Abdel (il “Cristo velato”), Teresa, Sebastian, Andrej, Elen, Alex (l’unico che ce la fa), Tony, Anny, Francois, Lorenzo, Marcel, Angelica e Antonio, il protagonista, quest’ultimo,  de Il viale degli angeli.

 

  • La copertina è la riproduzione di uno dei più famosi dipinti di Van Goog, Notte stellata, custodito nel Museo d’arte Moderna di New York, opportunamente “rivisitato: non c’è sfolgorio di luci, non c’è la luminosità del quadro originale, perché non ci sono le stelle nel cielo e neppure la luna,  ma all’angolo inferiore destro del dipinto, quasi sospese in un ambiente indefinito, sono ritratte le sagome di tre bambini, appunto tre angeli, dai volti indistinti, ma con il capo calvo, liscio come una palla di bigliardo –dice in un passo del libro l’autore- per gli effetti della pesante chemioterapia alla quale sono sottoposti.

 

  • La casa editrice è “Guida  lettere italiane”, una delle più prestigiose dell’Italia Meridionale che, se ha deciso di pubblicare il libro, significa che ha riconosciuto un alto valore alla narrazione ed al messaggio che da essa scaturisce.

 

  • Il protagonista è, appunto, Antonio, che ha solo undici anni e vive con le  passioni, i miti, i desideri, i sogni tipici della sua età quando viene aggredito inopinatamente da una gravissima forma di tumore, l’ “ependimoma cerebrale” (quando le diagnosi sono definite con un nome difficile da ricordare si tratta quasi sempre di malattie devastanti, non facilmente curabili) un male subdolo, ma terribile. Antonio lentamente e dopo un lungo peregrinare tra istituti specializzati, cliniche ed ospedali, si spegne nel “Debrè”, dove è stato sottoposto a interventi e terapie dolorosi, rivelatisi alla fine inutili, e dove le speranze e le illusioni dei familiari hanno fatto l’altalena con la disperazione

 

  • Il libro, che può essere definito un romanzo-verità, è la narrazione lucida, attenta e sofferta dei quattro anni della malattia di Antonio. Il lettore si fa avvincere dalla vicenda e coinvolgere sin dalle prime pagine del libro: anche lui soffre e anche lui spera che l’esito finale sia positivo, malgrado nel corso della narrazione siano diversi i bambini che si fermano. Ma la speranza che Antonio possa farcela si affievolisce pian piano, fino a venire meno completamente.

 

  • Di solito il mio approccio con un libro è di tipo “giornalistico”, nel senso che incomincio a sfogliarlo come normalmente si fa con un giornale: ne studio la copertina, guardo l’indice, leggo qualche pagina centrale, talvolta anche la conclusione, l’introduzione e poi, se da queste “operazioni” preliminari ritengo che a mio giudizio ne vale la pena, mi immergo nella lettura. Questo libro, invece, l’ho letto dall’inizio alla fine, in alcuni pomeriggi del mio soggiorno silano, sempre con la speranza di una conclusione diversa da quella che appare scontata sin dalle prime pagine.

 

  • Per deformazione intellettuale, avendo fatto in gioventù studi di linguistica e di letteratura, e per deformazione professionale, essendomi occupato per la massima parte della mia vita di educazione delle giovani generazioni, di un libro, specie se di narrativa, cerco di individuare e valutare  le forme di scrittura ed il messaggio educativo che da esso scaturiscono: le riflessioni personali che ho maturato dalla lettura di questo libro le propongo a voi in questo breve intervento.

 

  • Ebbene, la forma di scrittura è semplice, lineare, non ricercata, spontanea, quindi il libro è di facile lettura ed ancor più di facile comprensione, come richiede la vicenda che in esso viene narrata.

 

  • Quanto al messaggio educativo riconosco che esso è forte, nonostante l’epilogo finale, cioè la morte di Antonio. Il racconto, infatti, racchiude tanti sentimenti e valori positivi: l’amore genitoriale, un amore che domina tutto il racconto e che viene espresso in ogni pagina del libro, con le parole e con i fatti. Ti voglio bene, non si stanca di ripetere Leonardo ad Antonio e pur di stare accanto al figlio, pur di essergli utile, pur di farlo sentire sicuro, si sottopone a ritmi di vita stressanti, sacrifica la professione, brillante e affermata, consuma i suoi beni e le sue sostanze economiche. E che dire di Roberta, la madre che letteralmente abbandona le altre due figlie, che pure hanno bisogno di lei perché attraversano un momento importante della loro vita, per stare amorevolmente e costantemente accanto ad Antonio e per seguirlo in tutte le sue peregrinazioni tra i vari ospedali e cliniche? La solidarietà, intesa nelle diverse espressioni: come solidarietà familiare, poiché  tutta la famiglia, genitori, sorelle, zii, nonne, in modo commovente si coalizza contro la malattia; ed è una famiglia allargata, come la definiamo noi oggi, perché un ruolo centrale in tutta la vicenda svolge Francesca, seconda moglie dell’autore, che si dedica ad Antonio con l’amore di una autentica mamma;  come solidarietà espressa dal mondo extrafamiliare, (per es. i colleghi dell’autore e i giudici del tribunale che fanno di tutto per venire incontro alle sue esigenze professionali, o la solidarietà  che concretamente viene espressa in alcuni episodi del libro, cito l’incontro con Andy Luotto, il comportamento del proprietario del luna park dove furtivamente si erano recati Antonio e il padre, quello dei ragazzi che assistono al gran premio di Montecarlo). L’amicizia: sono emblematiche, al riguardo, le figure di Angelo e Mario, due fratelli di origine napoletana, emigrati a Parigi che sin dall’arrivo di Leonardo nella capitale francese, si mettono a sua disposizione e gli sono di non poco e non lieve aiuto. L’altruismo, che si coglie nelle attenzioni che Antonio, pur essendo gravemente ammalato, ed i suoi familiari manifestano verso gli altri bambini ricoverati. La fiducia e l’ottimismo di fronte anche alle situazioni le più avverse e, infine, il senso del dovere e l’abnegazione verso i malati, espressi dal personale medico e paramedico del “Debrè”.

Questi sentimenti, ai quali ho riservato soltanto pochi accenni, vengono vissuti come  autentici valori; sarà, tuttavia, attraverso la lettura del libro che potrete meglio scoprirli e ognuno di voi potrà andare anche al di là di quello che io sono riuscito a cogliere  con la mia lettura.

 

  • Nel racconto non mancano, di converso, comportamenti meschini e gretti, quale ad esempio quello del proprietario dell’appartamento che sorge in prossimità dell’ospedale “Debrè” e che il padre di Antonio vuole prendere in fitto, ma si trova di fronte ad un soggetto abominevole, il quale vuole speculare sulla malattia del bambino che mette in stato di necessità i genitori e anche il comportamento, non meno meschino e disumano del proprietario dell’appartamento preso in locazione dalla famiglia Mastia. Allorché per la morte di Antonio sono costretti a lasciare l’abitazione, questo signore non restituisce gli anticipi che aveva ricevuto, perché una clausola del contratto prevedeva il preavviso di tre mesi; il che vuol dire che Leonardo, che era andato a Parigi per cercare la guarigione del figlio, avrebbe invece dovuto non solo prevedere che questi sarebbe deceduto, quanto anche la data del decesso.

Vien da dire che gli sciacalli, coloro, cioè, che approfittano delle altrui disgrazie, sono sempre esistiti e continuano ad esistere.

 

  • Lungo tutto il libro si alternano gioia e dolore, speranza e disperazione e, come succede sempre in queste circostanze, si praticano protocolli, si inseguono sperimentazioni terapeutiche, si  cercano le consulenze più costose e più preziose: in Germania, negli Stati Uniti, in Messico: “andrò anche in capo al mondo, se necessario” -si dice il padre- dovrà pur esserci un posto nel quale esiste il mezzo per sconfiggere questo male; un male del quale non pronuncia neppure il nome e i termini cancro e tumore appaiono soltanto poche volte nel corso del libro. A volte una sola parola pronunciata da un medico o un esame diagnostico non peggiorativo del precedente, è sufficiente a creare illusioni di guarigione o a suscitare entusiasmi effimeri. Leonardo e Roberta non  vedono, perché non la accettano, l’evidenza neppure quando altri bambini ricoverati al “Debrè”, dove si stanno sperimentando nuove terapie di oncologia pediatrica, uno alla volta, muoiono: Antonio no, Antonio guarirà: ne sono convinti. Non esiste minimamente in loro l’idea che anche lui possa morire. E le fatiche che Leonardo e Roberta  affrontano sono immense, sovrumane, di quelle che solo l’amore di un padre e di una madre possono sopportare. Anche loro due alla fine si arrendono, ma solo dopo che Antonio, il gladiatore che ha combattuto mille battaglie contro la malattia e le sofferenze, si arrende.

 

  • In questa, così come  in vicende analoghe, non manca il contrasto tra la fede e la scienza. Infatti Roberta, la moglie separata di Leonardo e madre di Antonio, di fronte alla gravità della malattia  incomincia a pregare rivolgendosi al Signore, alla Madonna, a  Padre Pio per ottenere la guarigione del figlio: i libri di preghiera e le immagini di Santi diventano sempre più numerosi in casa e sul comodino di Antonio. Roberta costituisce anche dei gruppi che si riuniscono quotidianamente nella sua casa, recitando rosari, preghiere e giaculatorie per ottenere la guarigione di Antonio. Lo stesso ragazzo si coinvolge e si unisce a quelle signore (tutte vecchie: che ci fa mio figlio con questa vecchie? Si chiede un giorno stizzito il padre).

Alla fede di Roberta fa da contraltare lo scetticismo religioso, che è frutto del suo pensiero laico, del padre, il quale è convinto che il figlio guarirà, ma non per interventi soprannaturali, bensì per la ricerca scientifica, che riuscirà a trovare il rimedio al male che ha colpito Antonio. Non si tira indietro, tuttavia, (e penso non solo per assecondare i desideri di Roberta) allorché c’è da recarsi da Fratel Giulio e da Girolama, pseudonimi dietro i quali ritengo si nascondano le identità di Fratel Cosimo e di Natuzza, con viaggi che costano a lui, e soprattutto ad Antonio, non poca fatica.

Egli stesso, però, non resiste al desiderio forte di entrare in una chiesa: lo fa in un tardo pomeriggio di fine inverno e seppure non prega, apre il suo cuore al sacerdote, al quale racconta del figlio, dei ricoveri e dei pellegrinaggi in vari ospedali, delle speranze e delle delusioni, dei suoi dubbi sulla fede: “non riesco proprio a capire perché il Signore se la prende con i bambini” esclama, e ne chiede la risposta al prete. Alla fine si sente rinfrancato per aver avuto qualcuno a cui raccontare le sue pene e il suo dolore e, una volta rientrato in ospedale, dopo il colloquio con il sacerdote, ha “la netta sensazione di aver ritrovato un antico e potentissimo alleato, qualcuno al quale in un modo o nell’altro avrei potuto chiedere protezione e conforto e che forse  (sottolineatura. mia) avrebbe potuto aiutare il mio ragazzo” (pag. 198).

Ma l’interrogativo che egli si era posto diventa anche l’interrogativo di don Franco, il parroco che, celebrando le esequie di Antonio, grida il suo dolore al Signore chiedendogli:  “perché consenti che accadano queste cose? Perché la tua mano colpisce su un ragazzo così buono, così pulito, così indifeso?” Quando ciò succede “anche io, che sono tuo servo, sono assalito dai dubbi sulla Tua esistenza, sulla Tua indulgenza, sulla Tua clemenza”. (pag. 280)

 

  • Leonardo, comunque, non chiede mai la compassione: egli è un narratore lucido e attento di una vicenda che lo ha colpito in quanto ha di più caro e prezioso e la narra a distanza notevole dagli accadimenti; eppure è come se questi si stessero verificando nel momento in cui scrive: il suo cuore e la sua  mente sono lì, con Antonio e con tutto ciò che Antonio vive.

La compassione nasce spontanea nel lettore, con il succedersi dei fatti attraverso cui si sviluppa, fino alla fine, la malattia del ragazzo.

Non chiede compassione, Leonardo, neppure quando narra della sua debacle economica (è costretto a vendere la barca e la macchina e deve contrarre dei debiti), conseguenza delle spese ingenti per le cure di Antonio, per i continui viaggi e ricoveri, per le costose consulenze mediche  e per il quasi abbandono della professione forense.   

 

  • Dal punto di vista letterario l’autore dimostra di essere osservatore attento e narratore meticoloso, “fotografo” dell’ambiente. I luoghi, le situazioni, gli stati d’animo, le diverse stagioni, la ribellione di don Franco e l’ultimo incontro con lui, sono rappresentati con tratti di penna degni della nostra migliore tradizione letteraria.

Così come il trapasso di Antonio (pagg. 252 e segg.) è una pagina di poesia alta: credo che in poche opere della nostra letteratura la morte sia stata descritta così come Leonardo descrive quella di Antonio.

 

  • Dopo aver letto il libro, tuttavia, mi sono sorti alcuni interrogativi che ora rivolgo all’autore, approfittando della sua presenza, non senza avergli, comunque, espresso gratitudine per aver voluto socializzare la sua esperienza, che è una esperienza tipicamente umana, nella quale ciascuno di noi potrebbe un giorno trovarsi.

Perché ha scritto questo libro? Per idealizzare il proprio dolore? Per esorcizzare il male?  Per sfogarsi? L’averlo scritto ha per lui un valore catartico?

Il libro si conclude con tre parole: “Ora sto bene”.

Perché? Sta bene per aver scritto il libro? Oppure sta bene per aver rivisto il suo Antonio in quel bambino con “la testolina tonda ed aggraziata, quasi completamente calvo, con una cicatrice violacea recente, lunga e sottile che gli attraversava verticalmente la parte posteriore del cranio” che gli sorride allorché incrocia il suo sguardo?

 

  • Un’ultima considerazione: Leonardo nell’affrontare la malattia di Antonio non si è trovato solo; ha avuto il conforto e l’aiuto, come ho accennato, di parenti ed amici.

Ma quella che emerge in molte, analoghe circostanze è la solitudine nella quale vengono a trovarsi i familiari dell’ammalato di tumore, i quali , specialmente nelle fasi terminali della malattia, devono fronteggiare situazioni che richiedono forze superiori, che spesso essi non possiedono.

Ecco, allora, il senso dell’ACMO, un’associazione benemerita nata proprio per venire incontro alle famiglie di ammalati di cancro.

Devo riconoscere che è una fortuna avere la Sezione IDA PONESSA in questo territorio: mi risulta che essa è già intervenuta in diverse occasioni  a sostegno di malati gravi; per questo motivo essa merita di essere aiutata con ogni mezzo, nella consapevolezza che il male che oggi ha colpito altri, potrebbe un giorno colpire anche noi.

Grazie

Nino Mustari